Fine vita
La legge deve schierarsi sempre dalla parte della vita, perché è sul diritto alla vita che si basa la stessa società civile.
Occorre garantire il massimo della dignità alla persona che soffre, attraverso cure palliative, assistenza e terapie antidolore, perché nessuno debba desiderare di togliersi la vita.
Se invece apriamo la strada al suicidio assistito e, quindi, all’eutanasia il rischio è che un giorno possa essere un giudice, un medico o una legge a stabilire se una vita sia degna o meno di essere vissuta.

Nell’ordinamento italiano non c’è un vuoto normativo sul tema: abbiamo infatti l’articolo 580 del codice penale che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Abbiamo inoltre la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), che tuttavia contiene una grave stortura che occorre correggere, perché considera l’alimentazione e l’idratazione una terapia, quando sono chiaramente trattamenti di normale assistenza, l’interruzione dei quali non comporta la rinuncia a una terapia, ma significa far morire di sete e di fame un paziente. Una prassi che non è degna di un paese civile come il nostro.
La stessa Corte di Cassazione, in una recente sentenza, ha fatto appello al sentire diffuso della comunità sociale, che reputa intollerabile sopprimere la vita umana per qualsiasi motivo.
La persona umana va sempre curata e accudita fino alla fine, evitando ogni inutile accanimento terapeutico ma anche sanzionando ogni forma di omicidio o di istigazione al suicidio.